… potrebbe anche dimostrarsi un successone. Solo gli epigoni possono dirlo, ed essi narreranno sempre la storia di un successo, poiché nel caso opposto di epigoni non ce ne sono.

(H. von Foerster, Sistemi che osservano)

La scienza! Non ci sono che scienziati, mio caro, scienziati ed alcuni momenti di questi scienziati. Sono uomini… tentativi incerti, cattive nottate, bocche amare, un eccellente pomeriggio lucido. Sapete qual è la prima ipotesi d'ogni scienza, l'idea necessaria a ogni scienziato? E' che il mondo è mal conosciuto.

(P. Valéry, Monsieur Teste)

Introduzione

La storia della geologia del nostro secolo è diventata materia di vivo interesse soltanto negli anni Settanta, come conseguenza di quella che è stata riconosciuta come "una rivoluzione nelle scienze della terra"1. A partire dalla metà degli anni Sessanta all'interno della comunità scientifica degli studiosi della terra è maturato uno spostamento concettuale di grande portata che si è risolto nell'elaborazione e accettazione di un insieme di teorie e di un modello dinamico del nostro pianeta: la tettonica delle placche. Conseguenza di tale mutamento concettuale sono state l'eliminazione di conflitti teorici all'interno della comunità scientifica e la drastica svalutazione delle teorie incompatibili con il nuovo punto di vista. Addirittura si può dire che con il successo della tettonica delle placche la geologia ha visto per la prima volta la formazione della propria comunità scientifica sulla base dei medesimi concetti teorici.

Sarebbe lungo, e porterebbe lontano dagli scopi di questo lavoro, giustificare l'ultima affermazione, ma è utile darne una breve esemplificazione, se non altro per ribadire la grande importanza assunta dalla nuova tettonica nell'intera storia della geologia. Senza entrare nei particolari, si può dire che l'opera di Charles Lyell, i Principles of Geology, definì per la prima volta in modo univoco i metodi e gli scopi della ricerca geologica2. Anche se le sue teorie sulla storia della terra ebbero di fatto poca fortuna e il suo uniformitarismo si rivelò un concetto più vago e meno seguito di quanto in seguito si sia continuato a credere, non bisogna dimenticare che soltanto l'opera di Lyell fu capace di diffondere un'idea di geologia universalmente accettata. Tuttavia questo fondamentale passo non segnò la nascita di una comunità geologica internazionale. La seconda metà dell'Ottocento vide l'elaborazione della ricerca secondo tradizioni nazionali: la condivisione delle concezioni di Lyell aveva diffuso l'idea di "una" geologia, ma di fatto non c'era comunicazione tra studiosi di diversi paesi. Le cose cambiarono nel nostro secolo: le barriere nazionali diventarono sempre meno impermeabili, le metodologie di indagine si uniformarono e gli stessi scopi della ricerca geologica acquisirono una effettiva omogeneità. Un grande contributo a tale internazionalizzazione venne dalla teoria della deriva dei continenti di Alfred Wegener e dalla controversia che su di essa venne combattuta. Tuttavia proprio la controversia mantenne divisa la comunità scientifica, questa volta sulla natura della teoria da impiegare per svelare i misteri del nostro pianeta. Fino agli anni Sessanta la frattura non è stata composta e soltanto la tettonica delle placche è riuscita a imporsi come struttura teorica condivisa dalla comunità scientifica in tutto il mondo.

Si può dunque capire perché gli scienziati della terra abbiano attribuito grande rilievo al successo della nuova teoria geologica e vedano nella ricerca degli anni Sessanta un momento epocale per la loro disciplina. Non solo si è delineata una nuova fruttuosa interpretazione della storia della terra; non solo è stato elaborato un attendibile modello dinamico che spiega la morfologia della crosta del pianeta e la struttura del suo interno; oltre tutto questo, è anche stata effettivamente fondata la comunità scientifica come unità organica su un tessuto interdisciplinare. Oggi, quindi, non sarebbe più pensabile una descrizione della geologia (anzi di "geologie") in termini di scuole nazionali, come quella che Carlo De Stefani offriva all'inizio degli anni Dieci, ovvero quando Wegener si accingeva a proporre la sua teoria delle traslazioni continentali3.

Una nuova teoria, successi esplicativi di grande valore: di fatto il conseguimento di una stabilità e di una maturità disciplinari mai raggiunte prima. Ecco le ragioni dell'entusiasmo e della fierezza che dagli anni Sessanta percorre la comunità scientifica. E' comprensibile, allora, che tale entusiasmo si sia concretizzato in indagini storiografiche che hanno reso di dominio pubblico il sostanziale cambiamento avvenuto all'interno della disciplina. Un cambiamento che è arrivato a coinvolgere il nome della disciplina stessa: non più "geologia", ma "scienze della terra". Manuali, libri di testo, dipartimenti, corsi di studio hanno modificato titoli e denominazioni e hanno relegato il termine "geologia" alla ricerca stratigrafica, all'escursione del territorio di ottocentesca memoria4. Come astenersi, allora, dall'impiegare il vocabolo che più di ogni altro sintetizza e concretizza l'idea di cambiamento radicale? Come non lasciarsi ammaliare da "rivoluzione"? "Una rivoluzione nelle scienze della terra": ecco ciò che è accaduto negli anni Sessanta.

Per amor di verità storica è bene rammentare che i vocaboli prescelti non erano molto originali. Senza andare troppo lontano, basterà tener presente che già Wegener impiegava il termine "scienza della terra" per indicare la struttura interdisciplinare che doveva nascere dalle ceneri della vecchia geologia e farsi guidare dalla teoria della deriva dei continenti. E già Wegener aveva impiegato il termine "rivoluzionario" per definire la propria teoria5. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Inoltre è legittimo chiedersi quanto lo spregiudicato uso del termine "rivoluzione" da parte di John Tuzo Wilson, uno dei più geniali artefici della struttura teorica della nuova tettonica e il più agguerrito sostenitore della sua novità, sia stato debitore del quasi contemporaneo The structure of scientific revolutions di Thomas Kuhn. Ebbene, Wilson stesso testimonia di avere impiegato i vocaboli del libro di Kuhn al fine di mostrare come il grande rivolgimento concettuale e la nascita di una nuova teoria in geologia avessero seguito il percorso indicato da Kuhn stesso.

I giudizi e l'impostazione epistemologica di Wilson hanno lasciato un segno indelebile nella scienza della terra contemporanea. Proprio sulle asserzioni del grande geofisico (e, naturalmente, sul precetto kuhniano di fare uso della storia della scienza per capire la scienza stessa)  si è fondato l'interesse per la storia del concetto di mobilità continentale. Gli stessi scienziati si sono dimostrati curiosi del loro passato e tale curiosità è stata appagata dai libri di Anthony Hallam e Ursula Marvin6. Inoltre non va trascurato il fatto che proprio l'utilizzo di una concezione epistemologica per la prima definizione degli avvenimenti ha vivamente interessato i filosofi della scienza. Dopo le ormai abusate "rivoluzioni" nella dinamica, nella chimica, nella biologia, dopo le studiatissime "crisi" dei fondamenti della fisica e della matematica, finalmente è apparso qualcosa di nuovo: una rivoluzione in geologia, in una disciplina tradizionalmente ai margini della ricerca filosofica sulla scienza. Così gli epistemolgi hanno avuto un nuovo campo di battaglia su cui misurare la bontà delle teorie dello sviluppo scientifico. E i libri di Hallam e Marvin sono stati letti e sezionati, le loro storie sviscerate e interpretate.

Queste poche osservazioni non hanno carattere esaustivo, ma servono a ricordare che l'attuale vivace interesse storiografico per le vicende della geologia del nostro secolo è funzionale alle riflessioni epistemologiche sulla struttura della ricerca scientifica. Ciò che è utile rimarcare, inoltre, è la vicenda di una comunità scientifica che, nata da poco, cerca la propria legittimazione nella comprensione della propria storia. Essa, infatti, non si accontenta dei successi scientifici che riesce a conseguire con la nuova teoria, ma cerca di mostrare anche storicamente la superiorità del nuovo punto i vista. In tutto ciò non c'è nulla di nuovo: Kuhn ha ampiamente esemplificato quali siano le funzioni degli apparati storici dei manuali scientifici. Tuttavia nel caso degli scienziati della terra c'è anche qualcos'altro, non solo una storia per i manuali. I già citati lavori di Hallam e Marvin sono in primo luogo opere di storia della scienza, elaborate con criteri storiografici rigorosi e con avvedutezza epistemologica. Essi non fanno parte della "storia dei manuali". Propongono una storia basata sulle fonti e un'interpretazione che merita attenzione. Eppure non sono esenti da obiezioni anche sostanziali, e proprio queste obiezioni fanno nascere il sospetto che dietro tale esemplarità storiografica si nasconda un intento apologetico o quanto meno edificante. Un intento che appare in controluce anche nella numerose memorie dei protagonisti della rivoluzione e che merita di essere individuato, poiché può contribuire a rendere più chiara la storia della geologia del nostro secolo e, di conseguenza, le concettualizzazioni che la filosofia della scienza su di essa elabora.

Il presente lavoro tenta di mettere in luce quegli aspetti retorici e apologetici che si annidano tra le pagine della storiografia redatta agli inizi degli anni Settanta. Tale tentativo prende le mosse dalla corrente storiografia, per soffermarsi sul resoconto autobiografico di uno scienziato statunitense. Si tratta di un documento che può dirsi esemplare, poiché riporta impressioni e valutazioni che si trovano spesso nelle pubblicazioni degli scienziati che hanno vissuto la "rivoluzione nelle scienze della terra". Tuttavia, a differenza di molti altri, tale scritto è stato elaborato proprio come testimonianza, non è un frammento di memoria all'interno di un contesto scientifico, e questo contribuisce a rendere meno soggette a errore le interpretazioni che di esso si possono dare. Con l'aiuto di un'autobiografia, quindi, si cercherà di capire come è stata scritta la storiografia sulla geologia del nostro secolo.

Teorie geologiche

Il primo passo da compiere prima di giungere alla discussione del tema centrale è l'acquisizione di familiarità con alcuni tra i più significativi avvenimenti della geologia negli ultimi cento anni.

E' opportuno muovere dalle grandi opere di sintesi geologica dell'americano James Dwight Dana e dell'austriaco Eduard Suess. Dana fu il più autorevole studioso statunitense nell'ambito delle scienze della terra nel secolo scorso. Il suo fondamentale contributo alla disciplina consistette nella formulazione di una teoria generale della storia della terra che è conosciuta col nome di permanentismo7. Secondo tale teoria, elaborata attorno alla metà del secolo, le grandi strutture della crosta terrestre (continenti e oceani) non sono soggette a mutamenti di rilievo nella forma e nella posizione. Sulla base di questo concetto, la teoria dava una spiegazione esaustiva delle più importanti caratteristiche morfologiche e tettoniche della crosta terrestre. Grazie al proprio successo esplicativo, il permanentismo ha dominato la comunità scientifica statunitense fino alla sfida con la teoria della deriva dei continenti, ma non è stato abbandonato definitivamente fino all'avvento della tettonica delle placche.

Se Dana è stato il geologo statunitense per eccellenza, Suess ha incarnato la tradizione scientifica dell'Europa continentale. La sua opera, riconosciuta dai contemporanei come il più grande contributo alla scienza geologica dopo Lyell, si fondava su una teoria che era diretta conseguenza dell'ipotesi cosmogonica di Kant-Laplace e che prendeva il nome di contrazionismo. Secondo tale teoria, la storia della terra era quella di un pianeta che si andava raffreddando. Tale processo comportava una riduzione di volume, ovvero la contrazione del materiale caldo e fluido racchiuso nell'interno dall'involucro solidificato, la crosta terrestre. Nella formulazione di Suess, la teoria della contrazione spiegava magistralmente il meccanismo e la storia dei fenomeni orogenetici. Inoltre tentava di conciliarsi con le indicazioni paleogeografiche di antichi collegamenti tra continenti, oggi separati dai vasti oceani, per mezzo dell'ipotesi di continenti sommersi8. In seguito all'individuazione del principio di isostasia, secondo il quale i continenti erano più leggeri dei fondali oceanici e quindi non potevano inabissarvisi, il contrazionismo venne corretto e reso più conforme al dettato permanentista. Oceani e continenti erano riconosciuti come immutabili e definitivamente stabiliti per numero e collocazione fin dalla solidificazione della crosta terrestre, ma si riteneva che lingue di terra potessero alzarsi o abbassarsi rispetto al fondo dell'oceano in seguito a locali anomalie isostatiche. Queste lingue di terra, poi chiamate ponti continentali, erano in grado di spiegare i collegamenti indicati dalla paleogeografia senza violare i principi geofisici.

Dana e Suess stabilirono il credo teorico della generazione di studiosi della terra che vide il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Alfred Wegener sfidò il dominio di permanentismo e contrazionismo e propose una nuova ipotesi. Nel 1912 pubblicò i primi due articoli che postulavano l'esistenza di Kontinentalverschiebungen (traslazioni continentali) nella storia della terra. Wegener riteneva che l'idea di spostamento dei continenti fosse preferibile a quella di permanenza perché spiegava le indicazioni della paleogeografia con la supposizione di un'antica unione dei continenti (il Pangea), seguita poi dalla frattura e deriva delle masse continentali verso le posizioni attuali. Inoltre assicurava la superiorità della propria concezione rispetto a quella contrazionista perché sapeva spiegare in modo più convincente il meccanismo dell'orogenesi. Infine faceva notare la coerenza della propria teoria con i più accreditati principi della geofisica, in special modo con l'isostasia, violata dai continenti sommersi del credo contrazionista.

Wegener pubblicò la sua teoria in forma di libro nel 1915. A questa prima edizione ne fece seguire altre tre (nel 1920, nel 1922 e nel 1929), sempre più ricche di materiale e indicazioni che sostenevano la nuova interpretazione. In quei testi c'era una ricostruzione della storia della terra straordinariamente affine a quella offerta oggi dalla tettonica delle placche; un'affinità che dipende anche dall'uso del concetto di traslazione continentale in entrambe le teorie. Tuttavia Wegener non è tra i fondatori della nuova tettonica: egli, infatti, morì tra i ghiacci della Groenlandia nel 1930.

Da Wegener alla tettonica delle placche

La tettonica delle placche è nata dalla riunione di alcuni modelli teorici e dalla spettacolare conferma di alcune predizioni basate su quegli stessi modelli tra il 1960 e il 1966. All'inizio degli anni Settanta la "rivoluzione nelle scienze della terra" si è conclusa: la comunità scientifica ha accolto come propria la nuova teoria, e non ha mancato di riconoscere le affinità della nuova concettualizzazione della storia e della dinamica terrestre con quella che aveva dato Wegener.

Da tale riconoscimento alla domanda dell'eventuale ruolo avuto dalla deriva dei continenti nella elaborazione del nuovo credo teorico il passo è breve. Per dare una risposta esauriente e non limitata al semplice confronto tra le due teorie, è nato l'interesse degli stessi scienziati per la storia della loro disciplina. Grazie a questo interesse è stata scritta una storia della geologia che dalle formulazioni di Wegener giunge ai successi degli anni Settanta e che attraverso vari autori e contributi è stata codificata nel già citato libro di Bernard Cohen.

Le monografie di Hallam e Marvin sono state il riferimento principale della successiva storiografia. Le più recenti ricerche sono rimaste fedeli all'interpretazione e al giudizio sulla geologia del Novecento dati nei due libri del 1973, e la stessa struttura espositiva si è mantenuta invariata9. La storia viene scissa in due sezioni non comunicanti: la prima riguarda Wegener e la deriva dei continenti; la seconda si occupa delle ricerche nate dopo la seconda guerra mondiale, in un contesto teorico indifferente all'esistenza di una teoria delle traslazioni continentali e in discipline non comprese dalla sintesi di Wegener. E' questa seconda parte della storia - con le conquiste del paleomagnetismo, della geocronologia, dell'oceanografia, della sismologia - che porta alla comprensione del successo della tettonica delle placche.

E' bene chiarire che quest'ultima osservazione non può essere contestata. La teoria formulata negli anni Sessanta non si basa sul materiale osservativo presente nel libro di Wegener. Ciò non significa, comunque, dare ­­­­l'assenso ai giudizi e alle conclusioni sulla prima parte della storia. Al contrario, proprio su questa si apre la discussione.

A scopo di esemplificazione conviene esaminare il più recente libro dedicato al presente argomento10. L'autore, John Stewart, non è uno storico, bensì un sociologo della scienza che si propone di impiegare la storia della geologia per discutere le diverse tesi sulla dinamica dello sviluppo scientifico così come sono state elaborate da filosofi e sociologi della scienza. La parte storica che occupa la prima sezione del libro è il frutto di uno studio condotto su fonti secondarie, e il quadro che ne scaturisce è un ottimo esempio di ciò che costituisce l'attuale patrimonio della storiografia. In un capitolo di ventitre pagine Stewart racconta The Rise and Fall of Continental Drift Theory, un compito che esegue degnamente, senza scendere troppo nei particolari ma senza nemmeno generalizzare. La lettura di queste pagine fa capire che si tratta dell'ennesima ripetizione di cose note, anzi notissime, fin dal 1973, per cui è comprensibile che l'autore non si dilunghi troppo.

Il lettore viene informato della vita e dell'opera di Wegener, del contenuto della sua teoria e del fatto che la comparsa di tale novità diede vita a una vivace controversia internazionale11. Stewart riassume i contenuti della controversia, cita i capifila degli opposti schieramenti, narra le vicissitudini del più citato convegno sulla deriva dei continenti tenutosi a New York nel 1926 e infine conclude dichiarando la sconfitta della nuova teoria. E' vero, riconosce l'autore, la deriva dei continenti seppe guadagnarsi alcuni sostenitori, ma costoro non riuscirono a imporre l'idea di mobilità. Permanentismo e contrazionismo, addirittura, si raffinarono (con la più compiuta elaborazione della nozione di ponti continentali e la sua trasformazione in quella di "legami istmici") e si rafforzarono per respingere l'urto di un attacco che inizialmente fu impetuoso, ma che alla fine si dimostrò indebolito dalla contesa. Il dibattito sulle idee di Wegener, dunque, non giocò alcun ruolo nel processo che portò alla rivoluzionaria tettonica delle placche, perché si fermò molto prima e perché fu condotto in discipline diverse da quelle in cui la nuova visione di continenti mobili prese forma e si impose. Così Stewart passa alla seconda parte della storia, e la racconta nei successivi due capitoli (ottanta pagine). Inoltre, tanto per essere più chiaro a proposito della sorte della deriva dei continenti, ricorda la provocatoria definizione di "favola" con cui l'autorevole geofisico Bailey Willis appellò la concezione di Wegener12. Strano che non abbia aggiunto l'aneddoto, già ricordato da Marvin, di Percy Raymond, professore di paleontologia a Harvard, e delle sue lezioni negli anni Quaranta. Il buon professore amava ridicolizzare l'idea di traslazioni continentali raccontando di aver trovato mezzo fossile sulla costa nord-orientale del continente americano e un altro mezzo fossile sulla costa occidentale dell'Irlanda e di avere constatato che le due metà combaciavano perfettamente.

Da Wegener a Wegener

L'esistenza di simili amenità nella storiografia non è casuale e può insegnarci qualcosa. Per esempio, serve a ricordare che troppo spesso i resoconti della controversia sulla teoria di Wegener hanno fatto uso di aneddoti, di casi unici spacciati per "esemplari", di espressioni "definitive" (si pensi al giudizio liquidatorio di "favola"), per avallare il giudizio di una storia in due fasi separate da qualche decennio. Eppure proprio questi "segni" della sconfitta fanno sospettare una storia diversa. Come non insospettirsi, infatti, dell'esistenza di un'accusa tanto forte, come quella di essere una favola, lanciata nel 1944 contro la nozione di continenti alla deriva, se è vero che dopo la morte di Wegener anche la sua teoria fu eliminata dal contesto della ricerca geologica? Se davvero gli scienziati avessero abbandonato e dimenticato la teoria, non c'era alcuna ragione plausibile perché un eminente studioso ne parlasse su una rivista tanto prestigiosa quale era "The American Journal of Science".

La lettura del testo di Bailey Willis in effetti conferma che non si trattava di una liquidatoria denuncia di non scientificità contro una concezione priva di sostenitori. Willis si era sforzato di usare la più acuta violenza retorica di cui era capace per sostenere le proprie convinzioni contro colleghi che, nonostante tutto, ritenevano che la mobilità continentale fosse scientificamente ben fondata. Nello stesso volume della rivista in cui Willis scriveva, infatti, comparivano un articolo di Alexander du Toit e tre brevi interventi di Chester Longwell13. Alexander du Toit era un famosissimo geologo di Città del Capo: nella comunità internazionale era considerato il più abile e valente studioso di rocce e stratigrafie fin dagli anni Venti, e il suo nome figurava tra quello dei sostenitori della deriva dei continenti. Nel 1937 aveva pubblicato Our Wandering Continents, un libro che ripresentava e migliorava la concezione wegeneriana alla luce di più recenti e precise ricerche geologiche e paleontologiche. L'intervento del 1944 era una risposta circostanziata all'intervento dell'anno precedente, sulla medesima rivista, di un paleontologo permanentista del calibro di George Gailord Simpson. Il geologo sudafricano ribatteva punto per punto le argomentazioni di Simpson, che sulla base dello studio dei fossili di mammiferi nel terziario assicurava la superiorità dell'idea di permanenza14.

Chester Longwell era a sua volta un eminente studioso, le cui opinioni avevano un peso rilevante presso la comunità scientifica statunitense (in capo a qualche anno sarebbe anche diventato presidente della Geological Society of America). Pur non nutrendo simpatie per la nozione di continenti mobili, Longwell riteneva che il concetto di permanenza non fosse esente da problemi gravi e si dichiarava soddisfatto dell'esistenza di una teoria tanto diversa che stimolasse nuove ricerche. A suo parere era preferibile, in quegli anni di incertezza, poter disporre di più di un'ipotesi di lavoro nell'attività di ricerca, e stimava come degna di attenzione e foriera di importanti progressi la teoria di Wegener.

Rispetto alla militante presa di posizione di du Toit e alla fiduciosa disponibilità di Longwell, l'intervento di Willis suonava come un furibondo richiamo all'ordine, non certo come la constatazione di una stato di cose. La nozione di traslazioni continentali non era una favola: Willis avrebbe voluto che lo fosse, ma le stesse parole di Longwell chiariscono che la concezione wegeneriana era radicata nel contesto scientifico e godeva di dignità tanto quanto la sua antagonista. E, si badi bene, Longwell era a sua volta un permanentista, quindi la sua testimonianza non può essere tacciata di parzialità.

Questo episodio permette di concludere che a metà degli anni Quaranta la deriva dei continenti godeva ancora di credibilità e che la dottrina della permanenza non aveva vinto quei dubbi che avevano diviso la comunità scientifica negli anni Venti. Tuttavia si potrebbe dire anche qualcosa di più forte se si constatasse che gli articoli del 1944 facevano parte di una più vasta e animata discussione. L'esame delle pubblicazioni geologiche di quegli anni chiarisce che non si trattò di un avvenimento isolato. Numerosi scienziati proseguirono la controversia dopo la morte di Wegener e la combatterono organizzando ricerche di paleontologia, paleoclimatologia, geologia in ogni zona della terra. Asserire che la deriva dei continenti scomparve dal panorama scientifico all'inizio degli anni Trenta è un errore di valutazione. Certamente non si può dire che la teoria di Wegener sconfisse quella di Dana, ma nemmeno può essere avallato il contrario. La storiografia inaugurata da Marvin e Hallam sembra far credere che dopo il 1930 la scienza della terra fosse tornata a ciò che era prima, una disciplina guidata dalle nozioni di permanenza e di contrazione, e che nelle università i docenti formassero gli allievi senza nemmeno menzionare l'esistenza di una teoria alternativa. Invece è possibile constatare come un congruo numero di testi universitari dedicasse alcune pagine al problema di una teoria globale del pianeta e illustrasse l'esistenza di modelli teorici in conflitto tra loro, ancora al vaglio della comunità scientifica15.

Insomma, nella letteratura geologica di quegli anni è presente materiale documentario che contesta sostanzialmente la ricostruzione degli avvenimenti data dalla corrente storiografia. Sarebbe impossibile fare anche soltanto una breve escursione all'interno di un così gran numero di studi, ma forse qualche esempio potrà dare utili indicazioni16.

In primo luogo è opportuno discutere il ruolo avuto nella controversia dalla teoria formulata da Wegener. L'esame degli scritti dei geologi a partire dagli anni Venti mostra che in molti casi divenne arduo difendere nella sua originalità la versione di deriva dei continenti formulata da Wegener. In alcuni casi i sostenitori dell'idea di mobilità furono costretti ad apportarle sostanziali modifiche per difenderla dalle sempre più sofisticate obiezioni degli avversari. La famosa ipotesi di correnti convettive nel mantello elaborata da Arthur Holmes alla fine degli anni Venti, e oggi integrata nella tettonica delle placche, costituiva una sostanziale modifica delle ipotesi wegeneriane sulle forze che muovevano i continenti. La stessa storia geologica elaborata da du Toit differiva in modo sostanziale da quella dello studioso tedesco.

Altri nomi potrebbero essere ricordati, con lo scopo di mostrare come la fedeltà all'impostazione originale fu frequentemente posposta a una modificazione che rafforzasse la vitalità della teoria17. Tuttavia da ciò non si deve concludere che la controversia sulla nozione di mobilità continentale prescindesse dal nome del suo principale divulgatore. E' vero che talvolta le modifiche apportate furono sostanziali, ma la comunità scientifica rimase convinta per tutta la durata della controversia di dibattere la concezione di Wegener. L'impegno teorico era pro o contro la teoria del tedesco, anche se spesso furono chiamate in causa formulazioni diverse. Questo dipendeva dal fatto che il carisma di Wegener come "innovatore" del pensiero geologico non venne mai meno. Un geologo di fama come Michele Gortani riprendeva paragoni già più volte espressi, quando nel 1931 ricordava che la figura di Wegener era importante come quella di Einstein nella cultura scientifica contemporanea18.

Stabilito che il dibattito teorico era sulla concezione di Wegener, anche se spesso le argomentazioni erano prese da modifiche successive della medesima, è opportuno ricordare due episodi che danno la misura dell'importanza e della forza con cui la controversia fu presente anche dopo la morte di Wegener e fino alla nascita della tettonica delle placche. Il primo è un dibattito che apparve su "The Times", il secondo è un intervento di carattere storico.

Nei mesi di gennaio e febbraio 1939, la sezione "Lettere al direttore" del prestigioso quotidiano londinese ospitò gli interventi di scienziati della terra che discutevano la validità della concezione di deriva dei continenti di Wegener. I toni degli scritti furono molto duri: dalla difesa delle proprie ragioni si passò all'insulto dell'avversario. Edward MacBride giunse a sostenere che Harold Jeffreys (il più autorevole geofisico del tempo insieme a Holmes) dovesse studiare geologia prima di intervenire ancora nel dibattito sulla teoria della deriva dei continenti19. Inutile dire che dopo tali scambi di offese il direttore ritirò la disponibilità del giornale a ospitare le rissose opinioni dei contendenti. Resta il fatto, comunque, che per circa due mesi la "dimenticata" teoria di Wegener uscì dagli atenei e ebbe l'onore della cronaca. E' allora possibile sostenere che si trattava di una concezione scomparsa dalla scena scientifica insieme al suo mentore? Portare su "The Times" le discussioni e la violenza retorica delle pubblicazioni sulle riviste specializzate significava, tra l'altro, che la spaccatura nella comunità scientifica era insanabile e che la discussione razionale era ormai legata a una forte suscettibilità personale. Non occorre certo un approfondito studio sociologico per capire che quando le discussioni degenerano in litigio la differenza di opinioni è veramente radicata nei contendenti.

L'intervento di carattere storico che è interessante menzionare è invece solo un indizio dell'importanza della deriva dei continenti dopo la morte di Wegener. Nel 1954 Paul Tasch pubblicò un articolo dall'esplicito titolo Search for the germ of Wegener's Concept of Continental Drift20. In esso l'autore si domandava quali fossero le origini del concetto di mobilità continentale e praticava un'indagine nel campo della storia delle idee, più che della storia della scienza. Tasch riteneva che il germe ideale della deriva dei continenti fosse nella concezione di una terra che, come Atlantide, avrebbe anticamente collegato Africa e America. Di conseguenza individuava le radici della teoria di Wegener in tre ambiti: nella tradizione cartografica ellenistica che all'Africa affiancava Atlantide (separate da una stretta lingua di mare); nella scoperta del Nuovo Mondo da parte di Colombo (scoperta che ridava popolarità all'idea di Atlantide nella cultura del tempo); nella concezione di "stretto" oceano Atlantico che aveva guidato Colombo stesso nella sua impresa. Va detto che l'attuale storiografia non ha accreditato molto successo ai suggerimenti di Tasch e ha cercato in un'altra tradizione le origini concettuali dei continenti mobili. Tuttavia non è la validità delle conclusioni di Tasch che qui interessa, quanto il fatto che nel 1954 venisse pubblicato un lavoro che affrontava la questione della deriva dei continenti da un punto di vista storico. Secondo la versione storiografica oggi accreditata, in quel periodo la deriva dei continenti sarebbe stata estranea a qualunque interesse di tipo scientifico, per cui è difficile comprendere come potesse suscitare un interesse di tipo storico. D'altra parte la lettura dell'articolo di Tasch chiarisce che l'autore non si stava interessando di un concetto fantascientifico, bensì di una teoria che animava il mondo scientifico del suo tempo. Il tono era quello di chi indaga sul passato di un'idea nota e credibile, un tono non molto diverso da quello degli storici contemporanei, che faticano a spiegare il concetto di permanenza, non certo quello di mobilità.

Gli indizi che si ricavano dal breve lavoro del 1954 sembrano dunque rafforzare e rendere effettivamente più che plausibile un'interpretazione storiografica delle vicende della geologia del nostro secolo differente da quella inaugurata dai lavori di Hallam e Marvin. Un'interpretazione che non riconosce la sconfitta e l'esclusione dalla scienza della teoria di Wegener dopo il 1930, ma individua anche negli anni successivi l'esistenza di una controversia. Un'interpretazione, dunque, che mette in discussione l'idea di una storia del concetto di mobilità continentale sviluppata in due fasi distinte, separate da tre decenni. Si può ammettere con certezza che l'origine della tettonica delle placche non scaturì dalle discussioni attorno alle tematiche paleontologiche o paleoclimatiche della nozione wegeneriana; e si deve riconoscere che le indicazioni e le prove della mobilità dei continenti vennero dalle indagini paleomagnetiche e oceanografiche del secondo dopoguerra. Tuttavia non si può trascurare che la persistenza della controversia in alcuni gruppi della comunità scientifica faceva della teoria della deriva dei continenti un concetto ampiamente conosciuto; la cui notorietà raggiungeva anche quei settori delle scienze della terra che nascevano negli anni Cinquanta o che crescevano al di fuori della controversia stessa.

E' dunque opportuno riconsiderare alla luce della persistenza della controversia la "rivincita" del concetto di mobilità. Da Wegener alla tettonica delle placche il cammino non è stato unico e lineare, ma non si deve trascurare che comunque è passato attraverso l'incessante esame della teoria dello scienziato tedesco. Una parte importante dello sviluppo della geologia da Wegener alla nuova tettonica è attraverso Wegener stesso.

Ricordi di uno scienziato

La versione storiografica della sconfitta e della rinascita che qui è stata messa in discussione deve la propria diffusione e la propria notorietà non solo ai saggi storici degli anni Settanta. Gli stessi scienziati protagonisti dell'elaborazione della tettonica delle placche hanno dato un rilevante contributo alla compilazione di quella che sarebbe diventata la storia ufficiale della nozione di mobilità continentale. Tuttavia non è agevole valutare se le originali espressioni di carattere storico espresse dagli scienziati avessero anche una finalità storiografica o fossero memorie d'occasione. Tali giudizi storici, infatti, spesso erano rievocazioni che apparivano parenteticamente all'interno di un discorso scientifico.

Sostanzialmente diverso, sia per estensione sia per lo scopo dichiaratamente storico, è un intervento autobiografico del biologo americano Albert Wolfson. Wolfson ha raccontato la propria partecipazione alla controversia sulla teoria di Wegener nel corso di un convegno promosso dalla Earth Sciences Society nel 1984 e dedicato alla nozione di mobilità continentale nel Novecento21. In un consesso guidato dai più autorevoli storici della geologia del nostro secolo, Wolfson ha presentato una relazione che non si basava su documenti storici, ma sulla propria memoria: unico testimone oculare tra investigatori di biblioteche. Come già si è accennato si tratta di un documento di grande interesse, perché esprime considerazioni molto simili a quelle disseminate nei testi scientifici da moltri altri scienziati e perché permette di cogliere alcuni elementi retorici che in altri casi si confondono nella brevità dell'argomentazione.

Wolfson prese parte alla controversia nella seconda metà degli anni Quaranta con una ricerca di grande audacia: cercava di mostrare come i percorsi migratori di alcune specie di uccelli fossero spiegabili soltanto se si postulava che i continenti si fossero spostati nel corso delle ere geologiche; inoltre si proponeva di charire come le migrazioni fossero una prova della deriva dei continenti nella forma esposta da Wegener e du Toit. I contenuti di tale ricerca vennero pubblicati in "Science" nel 1948 e in "The American Midland Naturalist" nel 195522.

Il resoconto autobiografico ci riporta al 1945, quando Albert Wolfson, della Northwestern University, stava tentando di elaborare una teoria in cui la lunghezza dell'illuminamento diurno potesse essere un regolatore universale dei cicli di migrazione e riproduzione degli uccelli a tutte le latitudini. Si rivolse allora a un collega geologo per sapere se negli ultimi duecento milioni di anni, ovvero da quando apparvero gli uccelli, la lunghezza del giorno era variata. Il collega fu costretto a dirgli che la risposta dipendeva dalla fissità o dalla mobilità dei continenti, poiché l'eventuale variazione di latitudine dei continenti avrebbe modificato la lunghezza del giorno in una zona. Wolfson nulla sapeva di Wegener, per cui il collega gli consigliò la lettura di Our Wandering Continents, di du Toit. "The idea of continents drifting on the earth's surface fired my imagination"23: il biologo si rese conto della connessione tra movimenti dei continenti e percorsi migratori, e si domandò se i percorsi migratori erano evoluti per adattarsi ai continenti in movimento. "My colleagues in geology like the idea as such, but reminded me that practically all geologists rejected the concept of continental drift"24. Tuttavia egli era convinto dell'impatto evolutivo della deriva dei continenti sulla migrazione, per cui organizzò seminari di specialisti per dirimere la controversia tra permanenza e mobilità. Parlarono studiosi di biogeografia, geologia, climatologia. I biogeografi sostennero senza esitazioni la visione permanentista, ma Wolfson ebbe obiezioni che stupirono i colleghi e che a suo parere non ricevevano esauriente risposta. Anche i geologi sostennero la permanenza, ma "one could argue that about half of the data could be regarded as 'support' for drift"25. Ancora meno sicure erano le conclusioni nel campo della paleoclimatologia. Nel complesso non c'era alcuna "objective evidence" a favore della permanenza, mentre c'erano molte incertezze. Wolfson era sempre più convinto che la deriva dei continenti avrebbe dato le risposte migliori in tutte le discipline della scienza della terra.

Procedette così alla stesura di due articoli. Il primo mostrava come le più sofisticate forme di migrazione (quelle che alcune specie compiono percorrendo migliaia di chilometri) fossero una risposta adattiva alla separazione dei continenti. Per la prima volta si poteva individuare una ragione delle lunghissime migrazioni: le caratteristiche adattive del comportamento migratorio erano il risultato della selezione naturale, non, come in quegli anni si sosteneva, la causa stessa della migrazione. Per questi motivi Wolfson riteneva di poter concludere che l'esistenza di determinati percorsi migratori costituiva "prima facie evidence for the drifting of continental masses"26. Dapprima materia di seminario per i colleghi della Northwestern, l'articolo venne proposto alla redazione di "Science" nella primavera del 1948 e pubblicato nel luglio successivo. La reazione della comunità scientifica fu, nelle parole dell'autore, "dramatic"27: a dicembre "Science" ospitava lettere e commenti riguardanti l'articolo, alcuni negativi altri positivi. Di questi, Wolfson menziona soltanto la violenta replica di un ornitologo di New York, che impiegava le mai tenere espressioni di George Gailord Simpson.

Il secondo articolo trattava dell'origine della fauna volatile in America settentrionale. Il referente principale era un saggio di Mayr sul medesimo argomento, ma basato sulla dottrina della permanenza. Suo scopo era riesaminare la storia degli uccelli alla luce della mobilità continentale, chiarire che la concezione di Wegener era plausibile quanto quella di Dana, esporre i vantaggi e gli svantaggi delle due posizioni. Rifinito secondo le indicazioni di diversi colleghi, l'articolo fu inviato alla medesima rivista di ornitologia che aveva ospitato quello di Mayr. Dopo circa un anno la redazione si dichiarò per la non pubblicazione, poiché si trattava di un lavoro geologico. Wolfson allora lo spedì al "Bulletin of the Geological Society of America", ma anche qui fu rifiutato perché non pertinente, dato che si trattava di uno studio di biologia. L'autore si rivolse allora a "The American Midland Naturalist", che dopo più di tre anni, nell'aprile 1955, lo pubblicò. Tale ritardo fu controproducente per le argomentazioni di Wolfson, poiché i due articoli erano complementari. Tuttavia dopo il 1948 egli divenne un attivo sostenitore della deriva dei continenti e spesso si scontrò con altri scienziati sul terreno della controversia. Ricorda di avere partecipato come uditore (ma sostiene che avrebbe dovuto esservi invitato come relatore, dato che Mayr, presidente, menzionò il suo lavoro) al convegno sui collegamenti continentali nel Mesozoico tentuto a New York nel 194928. Inoltre si diffonde su un episodio per lui indimenticabile, un seminario in cui doveva confrontarsi con Simpson. Egli parlò, quindi venne il turno del più famoso paleontologo. "He got up, walked to the front of the group - the memory of it is still vivid - and with his extremely dignified appearence and gracious tone he said: 'Dr. Wolfson has his opinions and I have mine.' Then he sat down"29.

Wolfson si interessò alla deriva dei continenti sempre meno entusiasticamente, perché riconosceva che non c'erano possibilità di soluzione alla controversia. Soltanto la partecipazione a un seminario di Stanley Runcorn sul paleomagnetismo rinnovò il suo interesse. Finalmente "geology left 'the Dark Ages'" e fu "revolutioned"30.

Autobiografia e storiografia

La rievocazione di Wolfson si chiude su queste parole. Le poche righe successive sono una riflessione sulla scienza come attività umana, con le debolezze e i preconcetti degli uomini, e sulle possibili ragioni per cui le idee di Wegener dovettero attendere così a lungo prima di essere condivise. E', quest'ultimo, il problema centrale dell'attuale dibattito della filosofia della scienza sulla storia della geologia nel nostro secolo. Come è possibile che una comunità scientifica possa mettere da parte una teoria che prospetti un'immagine corretta del mondo? E' evidente che l'imbarazzo suscitato dalla domanda dipende dal significato di "mettere da parte". Se significa sconfitta, rifiuto, dimenticanza, come la storiografia sostiene, bisogna riconoscere che è difficile rispondere alla questione senza invocare interessi extra-scientifici, fattori sociali e varianti sostanziali della razionalità scientifica. Se invece si può parlare di controversia, di discussione prolungata, di presenza contemporanea di due teorie alternative nella comunità scientifica, imbarazzo e problemi vengono meno.

Prima di procedere nell'esame della questione è opportuna qualche considerazione sull'intervento autobiografico di Wolfson. La versione della storia che è tratteggiata dalla testimonianza del biologo americano è decisamente coerente con la tradizionale ricostruzione storiografica. Egli insiste sul fatto che in quegli anni i geologi rifiutavano la deriva dei continenti e narra gli avvenimenti rimarcando la propria solitudine in tutta la vicenda. I colleghi gli davano suggerimenti o insegnamenti, ma non sostegno. Inoltre riporta soltanto esempi di reazioni negative alla propria ipotesi e insiste sulle difficoltà incontrate per pubblicare il secondo articolo.

D'altra parte, alcune frasi della sua testimonianza prospettano una visione molto meno negativa della vicenda. In primo luogo è difficile capire la disponibilità con cui i colleghi risposero ai suoi inviti di discutere la teoria di Wegener se è vero che tutti la rifiutavano perché erronea. In secondo luogo merita attenzione il fatto che i colleghi di Wolfson fossero interessati alla sua suggestiva idea di relazione tra migrazione e mobilità continentale e contemporaneamente gli ricordassero che nessuno condivideva la mobilità stessa ("My colleagues in geology like the idea as such, but…"). Non è forse contraddittorio un comportamento del genere? Se davvero la deriva dei continenti fosse stata esclusa dal novero delle teorie scientifiche: a) Wolfson non avrebbe dovuto sentirne parlare; b) i colleghi avrebbero dovuto scoraggiarlo dal mettersi su una strada che portava fuori dalla comunità scientifica; c) non avrebbero guardato con simpatia gli sforzi del loro giovane collega.

A proposito delle reazioni al suo lavoro del 1948, l'autore dice "A few were strongly negative, but some were positive". Eppure gli esempi sono solo delle poche negative, mentre nulla viene ricordato dei commenti positivi. Cosa dire, poi, della drammatica rivisitazione dell'impatto con un Simpson che rifiuta il confronto? Significa forse che per tutti si trattava di un argomento chiuso? Fare di un caso la regola non è ossequioso nei confronti del metodo scientifico, per cui si può suggerire che Simpson trovasse superfluo discutere, visto che da anni conduceva una battaglia senza riuscire a vincerla. Non bisogna dimenticare, inoltre, che si trattava di una discussione che oltre a non dare soddisfazioni personali spesso generava proprio l'opposto, come nel caso delle accuse di incompetenza (per non dire peggio) che du Toit gli mosse nella discussione del 1943-44 su "The American Journal of Science".

Anche senza continuare l'esame del testo autobiografico di Wolfson, se ne può dare una valutazione generale: il suo racconto è costruito a tinte fosche, ciò che ne scaturisce è un mondo scientifico sconcertante, pieno di preconcetti, pronto all'offesa e alla scorrettezza piuttosto che alla discussione meditata e aperta. La sintesi di quegli anni in due parole - "Dark Ages" - non potrebbe essere più appropriata. In tale desolante bruma di brutalità e disonestà intellettuale brillano soltanto la deriva dei continenti e l'ipotesi temeraria di una connessione tra deriva e migrazione. Tuttavia la lotta è impari e la sconfitta inevitabile. Anche la ritardata pubblicazione del secondo articolo ha più l'aria di una congiura che di eventualità sfortunata.

Queste, naturalmente, sono impressioni generali, ma non stupisce l'esistenza di una storiografia che parla di sconfitta e rivincita se gli stessi scienziati ricordano così la loro storia. Perché, va tenuto presente, le testimonianze di altri protagonisti della controversia e della successiva rivoluzione prospettano avvenimenti e valutazioni di quegli avvenimenti che permettono una descrizione complessiva simile a quella data per il racconto autobiografico di Wolfson.

Se si pensa a tale stretta connessione tra una versione storiografica e il resoconto autobiografico degli scienziati e poi si passa a esaminare la letteratura geologica di quegli anni, o la stessa testimonianza di Wolfson, non può mancare stupore per l'evidente incoerenza. Wolfson dice che tutti rifiutavano la deriva dei continenti, eppure riuscì a organizzare tre seminari di discussione, partecipò a convegni e le sue ricerche venivano menzionate nella comunità scientifica. La storiografia sostiene che la teoria di Wegener venne sconfitta, che menzionarla era fonte di discredito, che gli scienziati addirittura la dimenticarono, eppure libri e riviste specializzate la discussero anche dopo il 1930, autorevoli istituzioni scientifiche organizzarono convegni per confrontarla con la dottrina della permanenza, nuove formulazioni vennero formulate su entrambi i fronti per non incorrere in un'effettiva sconfitta.

Come è possibile tale diversità tra la storiografia di vent'anni fa e la rilettura delle fonti qui proposta? Come è possibile l'incoerenza tra le intenzioni del racconto di Wolfson e le informazioni che trapelano dal suo testo? Prima di cercare di rispondere a queste domande è opportuno chiudere la questione che era stata posta a proposito del ritardo con cui la comunità scientifica ha riconosciuto la validità dell'idea di continenti mobili.

La testimonianza di Wolfson, anche se a sua insaputa, conferma la ricostruzione della storia menzionata nelle pagine precedenti. La domanda che il biologo stesso pone alla fine del suo articolo ("What about Wegener's ideas? Why did we have to wait so long for recognition of their merit?"), e che è materia di discussione anche per i filsofi della scienza, non ha quindi nulla di inquietante. Per la sua risposta non è necessario invocare tematiche extrascientifiche, o addirittura l'irrazionalità della comunità scientifica. Dall'esposizione della concezione di Wegener all'accettazione dell'idea di mobilità continentale, con la tettonica delle placche, è passato più di mezzo secolo perché né la teoria di Wegener né i successivi suoi miglioramenti hanno saputo convincere gli scienziati della superiorità della nuova visione. La comunità scientifica sarebbe stata irrazionale se avesse effettivamente messo al bando Wegener e i suoi sostenitori oppure se avesse trascurato di difendere la permanenza, una concezione teorica che da oltre mezzo secolo guidava con successo la ricerca geologica. La comunità scientifica, invece, non fu irrazionale quando discusse la possibilità che i continenti si muovessero, perché questa era l'unica alternativa all'impossibilità di stabilire la superiorità delle teorie in lizza.

A quest'uso ingenuo dei termini tanto complessi e mai definiti di "razionalità" e "irrazionalità" si può opporre l'ovvia osservazione che per fare una controversia ci vogliono due gruppi di individui schierati su due fronti contrapposti oppure un unico gruppo che accetti di sospendere il giudizio in attesa che qualcuno proponga la prova cruciale. La storia della controversia mostra una netta prevalenza del primo caso. Di scienziati disposti all'attesa, aperti alla novità, consci che il futuro avrebbe potuto dire una parola definitiva ce n'erano pochi, forse nessuno (lo stesso Chester Longwell, forse il più pacato in un periodo di furori, rimaneva comunque un fedele della permanenza). La controversia si giocò su fronti contrapposti, spesso senza risparmiare colpi che la tradizionale immagine dello scienziato presuppone come proibiti. Questo, dunque, significa che gli scienziati individualmente si comportarono irrazionalmente, poiché scelsero una teoria piuttosto dell'altra? A tale insidiosa domanda si può rispondere che il canone ingenuo che permette di distinguere razionalità e irrazionalità in ambito collettivo non può essere applicato agli individui membri della collettività. La scelta teorica nell'ambito della comunità scientifica dipende da un insieme di ragioni empiriche e teoriche che nessun singolo è in grado di valutare complessivamente. Il singolo è spinto alla scelta da ragioni che possono non essere così importanti per gli altri. Per Wolfson, ad esempio, la deriva dei continenti era una teoria auspicabile perché spiegava l'esistenza di migrazioni transoceaniche, mentre in precedenza gli scienziati si accontentavano di considerare tali migrazioni come una delle tante varietà della natura, senza spiegazione alcuna. Ogni scienziato aveva motivi plausibili per preferire una teoria all'altra, e la controversia fu l'occasione per cercare di convincere gli altri della maggior plausibilità dei propri argomenti. Naturalmente alle ragioni di natura squisitamente scientifica si affiancavano anche quelle estranee alla scienza. Tuttavia nel caso della controversia sulla deriva dei continenti esse non sono indispensabili per capire come si svolse e come si concluse il cammino verso la tettonica delle placche. La loro individuazione renderebbe ancora più perspicuo il quadro di un cinquantennio attivo e talvolta convulso, ma non cambierebbe il giudizio che di esso possiamo dare con tre parole: una controversia scientifica.

Eroismo e solitudine

La storia della controversia che emerge dalla letteratura geologica e dalla stessa lettura dell'intervento di Wolfson nel 1984 permette una riconsiderazione degli avvenimenti del periodo che intercorre tra la morte di Wegener e la nascita della tettonica delle placche. Inoltre sembra semplificare l'impegno dei filosofi della scienza nella giustificazione di quegli stessi avvenimenti. Resta da chiarire, se possibile, il complesso di ragioni che possono avere contribuito a definire un quadro storiografico come quello che è presente fino ai più recenti lavori sulla geologia del nostro secolo. Lo stesso racconto di Wolfson è guidato dai medesimi giudizi della storiografia, questo è evidente dal suo accenno agli "anni bui" e alla "rivoluzione". Tuttavia vi compaiono anche temi e strumenti retorici su cui è opportuno soffermarsi.

Nel ripercorrere la propria vicenda personale, Wolfson ha messo in luce quasi esclusivamente le difficoltà che incontrò quando decise di sostenere la teoria della deriva dei continenti per mezzo dei propri studi sulla migrazione dei volatili. Ha prospettato un rapporto spesso conflittuale con la comunità scientifica e ha insistito sul forte coinvolgimento emotivo degli scienziati nelle discussioni. Inoltre ha menzionato le proprie perplessità sui lunghissimi tempi di pubblicazione del suo secondo articolo. Il giudizio sullo spirito di libertà nella scienza con cui ha commentato la rapida pubblicazione del primo lavoro31 è un implicito atto di accusa contro chi ha negato lo stesso spirito nell'altra occasione. Wolfson non tenta di individuare le cause di tanto lungo differimento, ma fa capire che esse dipendono dalla sua preferenza per la teoria della deriva dei continenti. E' chiaro, invece, che non considera valide le ragioni di non pertinenza addotte dalle direzioni delle riviste.

L'immagine che emerge dalla rievocazione del biologo è quella di uno scienziato che in solitudine affronta il resto della comunità scientifica. Dalla loro, gli avversari hanno la superiorità numerica, ma lo scienziato solitario conosce la teoria giusta. Lo scontro è solo momentaneamente risolto al favore del gruppo: la verità non può che trionfare, e così dopo qualche anno, e qualche delusione, la geologia realizza la propria rivoluzione. E' questa struttura retorica che sostiene la testimonianza di Wolfson: una struttura centrata sulla figura dell'eroe solitario. Lui solo fu promotore di seminari per discutere una teoria che tutti rifiutavano, e lui solo subì le ritorsioni di una comunità scientifica poco conciliante. La stessa esposizione dei contenuti del suo secondo articolo suggerisce che si trattasse di un lavoro imparziale, rivolto a misurare i vantaggi e gli svantaggi delle due teorie geologiche in contrapposizione. Nonostante ciò, la pubblicazione si distinse come impresa ardua, decisamente boicottata da una maggioranza che detestava chi contrastava la permanenza.

Non è difficile comprendere gli strumenti e la finalità di una testimonianza di questo genere, ma prima di discuterne è opportuno chiarire alcuni punti. Innanzitutto va specificato che le ragioni addotte dalle riviste per rifiutare il secondo articolo probabilmente non erano false. Lo studio di Wolfson era di tipo interdisciplinare, e la ricerca geologica in quegli anni aveva una forte propensione per lo specialismo. Wegener aveva capito che la vittoria della sua teoria sarebbe potuta arrivare solo in seguito a una visione complessiva della scienza della terra, e i suoi più eminenti sostenitori molto spesso ricordavano che la debolezza della nuova concezione nei dettagli era bilanciata da una forte attendibilità sul piano globale. Tuttavia il ruolo degli specialisti fu molto marcato negli anni della controversia e fino alla tettonica delle placche la ricerca non riuscì ad affermarsi come interdisciplinare. Anche gli assertori della mobilità continentale spesso scelsero di battersi sul piano delle singole discipline, ma non riuscirono a vincere la controversia. Wolfson, invece, nelle sue ricerche attraversava più di un confine disciplinare e fu questo che lo mise in difficoltà. Una periodico come "Science" accettò subito il suo primo lavoro, ma allo stesso modo non potevano comportarsi riviste specialistiche come quelle cui si rivolse per il secondo articolo.

Non erano le simpatie per la deriva dei continenti che facevano ritardare la pubblicazione, ma certo furono queste che portarono il giovane biologo in una dimensione nuova della ricerca, ovvero all'interno di una controversia. Wolfson ha ricordato con una certa amarezza le dure reazioni al suo scritto del 1948 ma non è stato disposto a menzionare i commenti favorevoli; ha recriminato per il mancato invito al convegno del 1949 e per il comportamento di Simpson, ma ha trascurato di chiarire che l'imparzialità del suo secondo articolo era solo apparente. Tutto questo non vuol dire che i ricordi di Wolfson siano stati redatti con l'intento di alterare la storia, tuttavia essi obbediscono a requisiti retorici che hanno finalità ben precise. Wolfson ha cercato di mettere in luce la diversità della scienza geologica meno di mezzo secolo fa, quando la tradizione della permanenza aveva ancora salde radici nell'ambito della comunità scientifica. Però ha caricato in senso negativo la descrizione di quello che era un clima nervoso, effetto di una discussione che nessuno dei contendenti riusciva a vincere. Ha voluto raccontare che le discussioni scientifiche talvolta ricorrono a violenze verbali, intimidazioni, argomentazioni opinabili. Purtroppo ha illustrato solo quello che lui stesso ha subìto, ma non ha menzionato quello che altri, gli avversari stessi, avevano già sofferto. L'arroganza di Simpson può apparire urtante, ma insulti e offese alla professionalità di questo eminente paleontologo già facevano parte della sua storia personale.

Sarebbe estremamente interessante possedere la testimonianza storica di un sostenitore della permanenza per confrontarla con quella che qui si esamina. Molto probabilmente anch'essa sarebbe dominata dalla parzialità del punto di vista personale, per cui ci racconterebbe la controversia nei ricordi di chi stette dall'altra parte della barricata. Purtroppo la storia esalta i vincitori e costringe gli sconfitti alla resa. Nelle scienze, inoltre, gli sconfitti spesso scompaiono dalla scena oppure si convincono delle ragioni del vincitore, e quindi dimenticano il loro passato, che diventa un errore da lasciare alla curiosità degli storici. Wolfson, al contrario, ha potuto ricordare, ma ha raccontato una storia di iniziale sventura e di successivo riscatto. Il motivo della solitudine è strettamente connesso alla possibilità di descrivere come esaltante la "rivoluzione", tuttavia egli non era solo. La vera solitudine era quella di un teorico come Charles Trechmann, che negli stessi anni vedeva effettivamente ignorati i propri studi sull'orogenesi. Al Meeting della British Association for the Advancement of Science del 1953 quasi nessuno ascoltò la sua relazione, e nessuno la considerò degna di pubblicazione sui "Proceedings". Tuttavia Trechmann si considerava uno scienziato ingiustamente sminuito, per cui provvide a sue spese alla pubblicazione di un saggio che al pretenzioso titolo A New Explanation of Mountain Uplift Based on Lunar Gravitation and Ocaenic Pressure affiancava il provocatorio patrocinio di "The British Association for the Suppression of Science"32. Nemmeno tutto questo riuscì a smuovere l'indifferenza dei colleghi, il che è molto diverso dalla sorte dell'articolo di Wolfson, che fu ampiamente discusso su "Science" cinque mesi dopo la sua pubblicazione.

Gli scienziati e la storia

Il riconoscimento dell'impiego della retorica da parte del biologo statunitense lascia aperta la questione delle ragioni di tale impiego. Quali motivi hanno indotto lo scienziato a trascurare alcune precisazioni e a generalizzare alcune situazioni? La più plausibile spiegazione è l'esigenza di non contraddire la versione del destino della deriva dei continenti data dagli storici e ripetuta proprio nel corso del convegno nel quale Wolfson ha narrato la propria vicenda. Quindi il problema si sposta: per quale motivo esiste una scarto così evidente tra la ricostruzione della storia attuata all'inizio degli anni Settanta e la storia che emerge dal confronto con la letteratura geologica dei precedenti cinquant'anni?

Uno degli argomenti più spesso ripretuti dagli storici per sostenere la sconfitta della deriva dei continenti dopo il 1930 è l'esiguo numero degli studiosi che vi si interessarono. Il recente lavoro di Stewart presenta alcuni dati statistici che confermano la scarsità del numero di scienziati che sostennero la teoria di Wegener, anche negli anni Venti33. Questi rilievi numerici, però, non tengono conto del fatto che la geologia della prima metà del nostro secolo era eminentemente specialistica, ovvero che gli interessi per le teorie generali erano limitati. Con la propria proposta teorica, quindi, Wegener suscitava l'interesse di pochi scienziati. La discussione inizialmente si instaurò tra questi pochi, ma le sue dimensioni presto si allargarono, fino a coinvolgere anche specialisti che erano in grado di cogliere le implicazioni generali dei loro studi. In questa seconda fase, già evidente negli anni Venti, la percentuale di coloro che si impegnarono nella controversia era bassa rispetto alla totalità della comunità degli scienziati della terra, ma era altissima rispetto a coloro che erano interessati alle questioni di tettonica globale. Anche dopo l'affermazione della teoria delle placche la ricerca specialistica è stata poco interessata alle questioni generali. L'entusiasmo della comunità scientifica si è sostanziato in un alto numero di riferimenti alla nuova rivoluzionaria visione dela pianeta, ma si è spesso trattato di omaggi più che di contributi.

Nonostante queste necessarie distinzioni, i conteggi numerici e i rilievi statistici sono stati usati per sostenere una versione della storia che si rivela riduttiva. Apparentemente ciò che spiega questa descrizione semplificata di un periodo della ricerca geologica tanto ricco e complesso può essere fatto risalire a una eccessiva selezione nel reperimento delle fonti. Sia Hallam sia Marvin prentano una bibliografia che è effettivamente limitata se paragonata al materiale documentario disponibile. Tuttavia questa spiegazione non è sufficiente, perché i due studi del 1973 non hanno presentato un'interpretazione originale della controversia, bensì hanno giustificato espressioni, indicazioni, convinzioni che già da un decennio si erano consolidate all'interno della stessa comunità scientifica. La testimonianza di Wolfson è stata presa a modello perché esemplare proprio di ciò che gli stessi scienziati dagli anni Sessanta pensavano degli avvenimenti dei precedenti cinquant'anni. Si trattava di un'opinione diffusa che era stata riassunta e sistematizzata nelle pubblicazioni di Wilson, che erano contributi scientifici, storici e anche filosofici.

L'apologia della rivoluzione, il rilievo della discontinuità tra le nuove scoperte e l'ormai superata controversia sono espressioni che Wilson raccoglieva nell'ambito della comunità scientifica, ma che rappresentavano un punto di vista. William Harland, per esempio, aveva idee ben diverse. Harland, a differenza di molti suoi colleghi orogenisti, era consapevole delle differenze fondamentali tra la nuova teoria e la deriva dei continenti34, tuttavia nel 1969 pubblicò un intervento che sosteneva una diretta filiazione della seconda dalla prima35. Egli riconosceva l'esistenza di mezzo secolo di dibattito scientifico e rifiutava l'applicazione del modello di Kuhn alla recente storia delle scienze della terra. Purtroppo questa voce discorde non ha avuto seguito, mentre la versione storico-filosofica di Wilson è risultata vincente. E' plausibile ipotizzare che la selezione delle fonti operata dagli storici negli anni Settanta fosse guidata dai giudizi di Wilson, ovvero da una convinzione che si era diffusa tra gli scienziati e che non teneva in considerazione l'analisi di Harland.

Purtroppo non ci sono documenti che possano illustrare le motivazioni del successo di un giudizio storiografico che è nato prima degli studi storici. Sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, una serie di convegni (che discutevano la contrapposizione tra deriva dei continenti e permanenza alla luce delle nuove ricerche paleomagnetiche e oceanografiche) dimostra che la comunità scientifica era ancora convinta di operare all'interno di una controversia ormai decennale e di poterla finalmente concludere con i nuovi dati36. Nel 1963, nel corso di una discussione alla Geological Society of London, Edward Bullard presentava l'interpretazione della storia che già Wilson condivideva e che sarebbe poi stata formalizzata dai successivi studi degli anni Settanta37.

Le ragioni di un mutamento così radicale e repentino nel giudizio della storia possono solo essere congetturate. La lettura dei testi degli scienziati che guidarono la rivoluzione nelle scienze della terra fa innanzitutto pensare che la crescente attenzione per Kuhn e l'impiego del suo vocabolario non abbiano comunque alterato le convinzioni più tradizionali della comunità scientifica, ovvero l'idea di progresso e il realismo. Le polemiche e le discussioni nell'ambito della filosofia della scienza a seguito dell'opera di Kuhn non hanno toccato gli scienziati della terra. Il loro entusiasmo per il concetto di rivoluzione aveva forse la funzione di chiarire il rapido passaggio dall'indecisione ancora presente nel 1960 alla chiarezza di pochi anni dopo, ma non scalfiva la convinzione di aver compiuto un progresso rispetto al passato con la formulazione di una teoria più vera. Nel giudizio sugli anni della controversia, Wilson e colleghi hanno proclamato un'adesione alla filosofia della scienza di Kuhn, ma hanno impiegato una concezione popperiana della scienza. Secondo Popper una teoria merita di sostituirne un'altra se sottoposta a prove falsificanti non solo non viene falsificata, ma è anche corroborata. Ogni scienziato sa che una metodologia di questo genere renderebbe impossibile la pratica scientifica, eppure il giudizio con cui gli scienziati hanno svalutato l'importanza della teoria della deriva dei continenti nella geologia precedente la tettonica delle placche è molto vicino alle prescrizioni popperiane. La teoria di Wegener, nella loro ricostruzione della storia, aveva subito attacchi e mancate conferme che ne facevano una teoria falsa. Era corretta l'idea di mobilità dei continenti, ma era falso il supporto geofisico, falsi i meccanismi dinamici. Quindi era stato giusto rifiutarla, e era stato giusto mantenere la teoria della permanenza, che fino agli anni Sessanta non avrebbe subìto lo smascheramento della propria falsità.

Questo popperismo inconsapevole nel giudicare la storia aveva poi il vantaggio di convalidare l'idea di progresso. La tettonica delle placche si affermava perché teoria "vera", la permanenza e la deriva dei continenti scomparivano perché "false". Inoltre, i protagonisti della rivoluzione potevano assegnare a loro stessi il merito della "scoperta" di una nuova teoria, e non soltanto quello della conferma di una vecchia idea. Questo aspetto di autogratificazione sembra effettivamente sostanziare tanti commenti di quegli anni e la stessa celebrazione del concetto di "rivoluzione". Disconoscere come errato il contributo dato dagli scienziati negli anni precedenti e rilevare le fondamentali differenze tra deriva dei continenti e nuova teoria assegnava agli scienziati del secondo dopoguerra un primato intellettuale che altrimenti avrebbero dovuto cedere a Wegener. La stessa negazione dell'esistenza della controversia e le ricorrenti affermazioni dell'esclusione dal panorama scientifico del concetto di mobilità continentale fin dal 193038 portavano a trascurare l'importanza di Wegener per la successiva rivoluzione. Secondo tale riscostruzione degli eventi, gli scienziati che rivoluzionarono la geologia negli anni Sessanta avrebbero reinventato la nozione di mobilità delle grandi strutture crostali e solo in seguito avrebbero riconosciuto che già mezzo secolo prima il concetto era stato formulato in termini scientificamente accettabili.

Che le cose non possano essere andate così appare dalle semplici note biografiche di quei protagonisti39. Harry Hess, che nel 1960 formulò la teoria dell'espansione dei fondali oceanici, conosceva la deriva dei continenti e la controversia fin dagli anni Trenta, quando era studente. John Tuzo Wilson negli anni Cinquanta era un sostenitore del contrazionismo e della permanenza contro la nozione di mobilità continentale. Drummond Matthews, colui che insieme a Fred Vine fece la predizione che, confermata nel 1966, segnò il successo della nuova tettonica, conosceva e condivideva la deriva dei continenti da una precedente campagna geologica in Antartide e nelle Falklands. Allan Cox e Richard Doell, che diedero contributi fondamentali allo studio delle inversioni magnetiche e della geocronologia, erano stati allievi di John Verhoogen, sostenitore della deriva dei continenti fin dagli anni Quaranta. Non è possibile, quindi, che la nozione di mobilità sia stata frutto di "riscoperta" negli anni Cinquanta, perché la controversia sulla teoria della deriva dei continenti di Wegener era ancora viva all'interno della comunità scientifica, specialmente in quella parte più sensibile all'esigenza di teorie generali e unificanti.

Eppure l'immagine tratteggiata dagli interventi di Wilson era proprio quella di una discontinuità tra deriva dei continenti e tettonica delle placche, una discontinuità che relegava nel nebuloso e erroneo passato la prima e che faceva della seconda un'autonoma conquista del dopoguerra. Tale visione della storia sarebbe poi stata sistematizzata dalla storiografia e a nulla sarebbe valso il parere contrario di scienziati come Harland: i protagonisti della rivoluzione nelle scienze della terra hanno vinto la loro battaglia non solo contro i sostenitori della permanenza ma anche contro una possibile attribuzione della priorità a Wegener. Per fare questo gli scienziati e gli storici hanno dimenticato tre decenni di discussioni. Whitehead disse che una scienza che non dimentichi i propri fondatori è perduta. L'oblìo sembra funzionale al progresso scientifico e addirittura essenziale per la comunicazione scientifica40, tuttavia questo episodio appare eccezionale. In questo caso, infatti, c'è stata una stretta collaborazione tra scienziati e storici nella ricostruzione del recente passato: gli scienziati stessi hanno motivato l'impegno storiografico, e questo si è mantenuto entro la struttura interpretativa data dalla comunità scientifica

Oggi, a più di vent'anni di distanza da quel periodo di entusiasmo e di successi, la storia sembra avere assegnato definitivamente i suoi ruoli. Wegener è riconosciuto come l'autore della prima formulazione scientificamente importante della concezione di mobilità delle strutture della crosta terrestre; Wilson e compagni sono gli eroi del momento più importante della geologia del nostro secolo. L'eventuale riconoscimento del proseguimento della controversia e della sua soluzione nella tettonica delle placche non cambierebbe quei ruoli: Wegener non sarebbe comunque il fondatore della nuova teoria. Ciò che dovrebbe mutare sarebbe il giudizio della comunità scientifica e degli storici a proposito di quegli scienziati che per mezzo secolo discussero per imporre una concezione della terra incompatibile con quella degli avversari. Nel corso di quella discussione il risultato principale, la vittoria di una teoria, non venne ottenuto, tuttavia ciò non significa che la scienza della terra non ne abbia tratto benefici. Non si deve dimenticare, infatti, che le ricerche compiute per sostenere i rispettivi punti di vista portarono gli scienziati a esplorare e conoscere zone del pianeta prima del tutto ignorate. Quando un nuovo quadro di insieme, la tettonica delle placche, si rese disponibile, la grande messe di dati raccolti in quei cinquant'anni fornì un sostegno e un allargamento delle conoscenze che non aveva precedenti. La nuova tettonica non fu solo in grado di fornire una visione dinamica del pianeta che fosse coerente e di grande versatilità; fu anche corredata da una serie amplissima di conoscenze che avrebbero permesso una ricostruzione della storia della terra quanto mai precisa e attendibile.

Fino a oggi questa consapevolezza storica è stata sacrificata per fare posto a una ricostruzione degli avvenimenti che privilegia alcuni aspetti della retorica della comunicazione scientifica. L'eroismo della solitudine, la contrapposizione di errore e verità, l'inevitabile affermazione di quest'ultima secondo i canoni della metodologia dell'esperienza, la priorità come sinonimo di superiorità: tutti temi che appaiono nella storia raccontata dagli scienziati e raccolta dagli storici. Temi che poi necessariamente confluiscono nei sempre più sofisticati modelli della filosofia della scienza, di norma costruiti su fonti secondarie, e che non di rado ne falsano la prospettiva, così da allontanare la comprensione dell'impresa scientifica. Il tentativo di mettere in luce questi aspetti retorici con l'aiuto di un'interpretazione meno semplicista della storia vorrebbe essere uno stimolo per riconsiderare alcune questioni di natura storica e filosofica nella teoria che ha dato uno dei più significativi contributi alla conoscenza di questo "mondo mal conosciuto".

1  Così titolava John Tuzo Wilson un famoso articolo di presentazione della teoria della tettonica delle placche nel 1968 (cfr. Wilson 1968b). Espressione che veniva ripresa da Anthony Hallam con la monografia che nel 1973 contribuiva a codificare quanto era accaduto nelle scienze geologiche nei precedenti sessant'anni (cfr. Hallam 1973). Hallam è uno scienziato - geologo e paleontologo - che da circa due decenni si occupa anche della storia della sua disciplina. Di grande rilievo, oltre al saggio del 1973, è Great geological controversies, un volume del 1983 (dedicato alle più importanti dispute nella storia della geologia) che ha avuto una seconda edizione ampliata nel 1989. Insieme a un altro libro del 1973 (cfr. Marvin 1973), A revolution in Earth Sciences è diventato un classico della storia della geologia del nostro secolo, in special modo dopo che I. Bernard Cohen ne ha fatto uso per la redazione del capitolo finale del suo Revolution in science, non a caso intitolato Continental Drift and Plate Tectonics: a Revolution in Earth Science (cfr. Cohen 1985).

2  Per una interpretazione più completa cfr. Gould 1987.

3  De Stefani riconosceva la diffusione delle idee di Dana negli Stati Uniti e di quelle di Suess in Europa (cfr. De Stefani 1912: 7-9). Ricordava con orgoglio lo sviluppo in Italia di una tettonica dell'Appennino "più di quelle del Dana e del Suess lontana dalle teoriche catastrofiche, e maggiormente conforme ai fondamenti uniformitari del Lyell" (cfr. De Stefani 1912: 10). Inoltre notava con ironia come le scuole nazionali fossero restie ai collegamenti con l'esterno. A proposito dell'italiana teoria dei carreggiamenti, accettata anche da Suess, chiosava: "prudenti come sempre stanno gl'Inglesi; e a sé, forse sdegnosi di novità non loro proprie, gli Americani" (cfr. De Stefani 1912: 19).

4  Naturalmente non è un errore usare "geologia" come sinonimo di "scienze della terra", laddove il contesto lo permetta: la distinzione è nelle denominazioni ufficiali. Comunque si può notare come il cambiamento del nome abbia interessato un congruo numero di edizioni di manuali negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Per alcune indicazioni statistiche cfr. Muir Wood 1986: 179-93 e Le Grand 1990: 238-40.

5  La proclamazione che Wegener diede di sé come "rivoluzionario" è in una lettera a Wladimir Köppen del dicembre 1912, pubblicata con qualche modifica in Wegener 1960. La pubblicazione della versione originale è in Macrakis 1984.

6  Cfr. Hallam 1973 e Marvin 1973.

7  Uno dei più famosi luoghi della formulazione della dottrina della permanenza è Dana 1873.

8  La sintesi geologica di Suess è costituita dalla monumentale opera Das Antlitz der Erde: cfr. Suess 1883-1909

9  Fanno eccezione, per le informazioni contenute o le tesi esposte, Wood 1986 e Le Grand 1990.

10  Cfr. Stewart 1990.

11  L'estensione e l'importanza di tale controversia sono ben riassunte nel ricordo di Alfred Wegener redatto da Michele Gortani. Della deriva dei continenti diceva: "Teoria indubbiamente geniale, che investe ad un tempo problemi geologici, geografici e biologici di fondamentale importanza, e che, rivoluzionando i concetti più radicati della vecchia scuola nel periodo più atto ad accogliere le nuove idee, richiamò l'interesse appassionato di una vastissima cerchia di studiosi, e, successivamente, di tutto il pubblico colto". Cfr. Gortani 1931: 675.

12  Cfr. Willis 1944.

13  Cfr. du Toit 1944; Longwell 1944a, 1944b, 1944c. Per una più ampia esposizione della vicenda cfr. Le Grand 1990: 118-120, 102-104, 110.

14  Cfr. du Toit 1944, 1937; Simpson 1943. La polemica di Simpson contro la deriva dei continenti è riassunta in Le Grand 1990: 102-104.

15  Non è stato fatto uno studio statistico completo dei testi per studenti tra il 1930 e il 1960, ma alcuni conteggi sono presenti in Le Grand 1990: 121

16  Per un'esposizione più dettagliata cfr. Segala 1990, cap. V.

17  Una esemplificazione è in Le Grand 1990: 109-117.

18  A proposito della recente scomparsa di Wegener, Gortani scriveva: "Triste ma glorioso destino di uno scienziato ancor giovane, cui aveva arriso la fortuna incomparabile di essere per dieci anni, dopo Einstein, il più popolare tra i cultori di scienza pura ed il centro di più fervide discussioni". Cfr. Gortani 1931: 674.

19  Cfr. Segala 1990: 251-253.

20  Cfr. Tasch 1954.

21  Gli atti del convegno sono stati pubblicati in "Earth Sciences History", vol. 4, fasc. 2, 1985. La relazione di Wolfson è alle pagg. 182-186.

22  Cfr. Wolfson 1948, 1955.

23  Wolfson 1985: 182

24  Ibid.

25  Ivi: 183.

26  Ivi: 184.

27  Ibid.

28  Cfr. Symposium 1952.

29  Wolfson 1985: 185.

30  Ibid.

31  "In retrospect, the immediate acceptance and publication of this paper [Wolfson 1948] exemplified the finest spirit of science-freedom of inquiry and publication" (Wolfson 1985: 184; il corsivo è nel testo).

32  Cfr. Trechmann 1955.

33  Cfr. Stewart 1990: cap. VII.

34  Cfr. Le Grand 1990: 237, 263 n. 7.

35  Cfr. Harland 1969. Si trattava di una recensione in "Geological Magazine" delle recenti traduzioni inglesi della quarta edizione del libro di Wegener (nel 1966 a New York e nel 1968 a Londra), e della pubblicazione di Takeuchi et al. 1967 e di Phillips 1968.

36  Cfr. Irving 1958, che mostrava come l'esistenza di una teoria come quella di Wegener aveva permesso un'interessante interpretazione dei dati paleomagnetici.

37  Cfr. Bullard 1964; Wilson 1963.

38  Si veda Takeuchi et al. 1967 (p. 15 della trad. it.), un testo scientifico che ebbe vasta diffusione in quegli anni.

39  Cfr. Le Grand 1990: 116, 191, 206

40  Queste argomentazioni fanno immediatamente pensare alle pagine di Kuhn dedicate ai manuali. Ma l'importanza dell'oblìo per l'attività scientifica è stata riconosciuta anche al di fuori del contesto kuhniano. Si vedano, ad esempio, Bellone 1988 e la relazione di Paolo Rossi al Convegno "L'arte della dimenticanza", organizzato dall'Istituto di ricerca sulla comunicazione A. Gemelli e C. Musatti, che si è svolto a Milano dal 12 al 14 novembre 1990.